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Il Messaggero,
Roma, Martedì 27 Dicembre 2005

«L’immaginazione, che dono»
di LUIGI VACCARI

 


NEL 1986, prossimo ai 60, Alberto Sughi, romagnolo di Cesena, pittore del realismo esistenziale, ha dipinto una serie di quadri a cui ho dato il titolo La sera o della riflessione . Il ciclo è imperniato sul quadro “La sera del pittore”: rappresenta l’artista che, uscendo dallo studio, si gira e si sofferma a guardare i segni lasciati sulla tela, mentre fuori della porta la giornata si spegne dietro alberi scuri. «Quando siamo avanti con gli anni», dice, «cerchiamo di capire qual è stato il senso della nostra vita: è il bisogno di fare una specie di bilancio, il desiderio di dare un assetto unitario a un percorso che spesso si è dipanato tra molte contraddizioni».
Ha cominciato a interrogarsi soltanto 20 anni fa?
«Le domande sono cominciate molto prima».
Erano state sollecitate da avvenimenti o situazioni particolari?
«Direi di no. Le domande si pongono per conto loro; forse ce le portiamo dentro da sempre; purtroppo arrivare fino nel profondo del nostro essere è la ricerca più difficile che si possa intraprendere. Spesso soffriamo proprio perché non riusciamo a conoscerci profondamente. Una frase corrente, tanto da apparire banale, dice che l’opera di un artista è lo specchio su cui si riflette la storia stessa della sua esistenza: delle sue passioni, dei suoi ideali, delle sue tensioni, del suo pessimismo. E’ vero. Alle volte ho cercato, attraverso i miei quadri, di saperne di più sulle mie ansietà, sulle mie paure. Sono interrogazioni formulate non mediante il ragionamento, ma racchiuse dentro la forma della pittura: domande che faccio non solo a me stesso, per ricercare la verità sul senso della vita. Probabilmente questo senso è rappresentato da queste continue e inesauribili interrogazioni».
Hanno avuto delle risposte?
«Quasi sempre contraddittorie tra di loro. Via via, sono state influenzate dai tanti cambiamenti che, nello scorrere del tempo, sono avvenuti dentro e fuori di me. Sono state anche condizionate sia dalla mia temperatura esistenziale sia dalle attitudini razionali. Dare alla vita, alla vita di ogni uomo, un senso degno, nell’accezione più estensiva del termine, mi pare un’aspirazione di giustizia e di moralità».
Perché «di giustizia e di moralità»?
«Per parlare della propria vita occorre confrontarla con quella degli altri: di tutti gli altri. Esistono grandi diversità di cultura, di assetto sociale, di religione, di concetto del bene e del male. Ma tutte le differenze sono sempre minori delle somiglianze che determinano l’identità dell’uomo. Per questo mi pare un’aspirazione giusta e morale dare un senso degno alla vita di ogni individuo».
Sughi racconta di aver scelto di diventare un pittore quando era poco più che bambino. «Dico di avere scelto, ma forse sarebbe più giusto dire che è stata, non trovo altra parola, una specie di vocazione che mi ha portato a incamminarmi su questa strada».
La vocazione pone domande?
«Non le pone. E non cerca risposte. Semmai alimenta la passione e fortifica la perseveranza. Non riesce tuttavia a eliminare tutti i perché che chiediamo agli altri e a noi stessi, dall’adolescenza fino alla vecchiaia, per conoscere il significato della nostra esistenza. A pensarci bene, proprio in queste domande, che nessuna risposta sembra appagare, è racchiuso il senso misterioso della vita stessa.
Il bambino è sconvolto dal pensiero che un giorno, secondo una legge naturale, perderà per sempre il padre e la madre. Questo pensiero lo addolora al punto di augurarsi di morire prima di loro per sfuggire a una sofferenza che non è in grado di affrontare. La legge di natura, l’amore, la presenza, l’assenza, il dolore, la morte: per quanto inconsapevolmente il tema delle nostre domande sul senso della vita è posto presto e in maniera molto articolata».
Nel 1956 Sughi è stato ricoverato all’ospedale Sant’Orsola di Bologna, in un grande stanzone dove ogni ammalato aveva un numero sopra il letto: «Io avevo il 51; un cieco, di cui ero diventato amico, il 28; un altro il 14; e così via. Non ci chiamavamo per nome, ma col numero del nostro letto. Da me veniva spesso il professor Placitelli con il suo seguito di assistenti: si intratteneva a lungo, parlava con i giovani medici, poi se ne andava trascurando del tutto gli altri ammalati. Mi venne il sospetto che l’attenzione particolare nei miei riguardi fosse stata in qualche modo sollecitata. E una mattina trovai il coraggio per dirgli che di notte il cieco si era sentito molto male e che forse avrebbe fatto bene a fermarsi un po’ anche al suo letto. Il professore rispose con un sorriso appena accennato, mentre dall’altra parte dello stanzone una voce s’alzò per commentare la mia richiesta: “Ehi, 51, pensa per te. Noi, al tuo confronto, stiamo tutti bene”. Venni così a sapere di avere un tumore con poche speranze di farcela».
Qual è stata la reazione?
«Un sentimento di smarrimento, non di paura. Non arrivavo a mettere ordine nei pensieri che sembravano attraversarmi senza lasciare traccia».
Gli interrogativi sul senso della vita, di fronte all'angoscia di doverla lasciare, si sono fatte pressanti?
«Sono caduto in una specie di assopimento emozionale tanto da non provare né sconforto né ribellione».
E quando ne è uscito?
«Più avanti mi sono spesso chiesto se, senza porsi domande e darsi risposte, si getti via la vita o invece, almeno in qualche caso, non sia un modo per proteggerla».
Ne ha tratto conclusioni confortanti?
«Le esperienze difficili mi sono sempre servite, se così si può dire, per accettare la vita per quello che ha da offrirci. Nel conto vanno messe anche la sofferenza e la coscienza della nostra morte che non è soltanto quell’avvenimento terribile a cui, soprattutto oggi, pensiamo con angoscia. Che senso avrebbe la nostra vita se non avesse una conclusione? Se si prolungasse all’infinito, finirebbe per non appartenerci più: sarebbe consegnata a un tempo metafisico affrancandoci da ogni obbligo di conoscerne il percorso. Dimentichiamo che senza la fine non ci sarebbe stato nemmeno il principio ».
Questa considerazione attenua l’afflizione per il congedo?
«L’uomo si appropria attraverso l’arte, la filosofia, la storia di un passato che non ha vissuto; vive la sua vicenda individuale nel presente; ha la facoltà di immaginare e di progettare il mondo che verrà dopo di lui. Si misura, in altre parole, con una dimensione molto più estesa rispetto a quello che la sua fragile esistenza potrebbe offrirgli. E’ l’anello insostituibile di quella catena che raccorda il passato al futuro».
E’ sufficiente per dare un significato alto e compiuto alla vita?
«Forse, questo sentirsi parte di un percorso, cominciato chissà quando e che continuerà fino a chissà dove, dà all’uomo l’idea dell’eternità. E’ importante fare bene la parte: essere un anello che non si spezzi, ma tenga e assicuri la continuità della vita accettando anche la nostra morte individuale».
(6.continua)

L'intervista di Gigi Vaccari con Alberto Sughi "L'immaginazione che dono" parte di una serie di interviste intitolate il Senso della vita e' stata pubblicata su il Messaggero del 27 Dicenbre 2005


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