L'arte figurativa si pone come un legame attivo tra l'anima e la natura, ed essa può essere colta soltanto nel centro vitale che sta tra le due. Per un filosofo come Schelling è perciò errato il lavoro d'imitazione della natura a qualunque costo, così come è ingiusto imitare solo il "bello" che essa propone, visto che è assai problematico distinguere tra il bello e il brutto. Secondo il filosofo l'artista deve inizialmente allontanarsi dalla natura per coglierne le sembianze nell'imitazione, questo per permettere al suo sguardo di penetrare nella sua memoria sino ad afferrare la spiritualità che della natura è il cuore, e farla lavorare all'interno dell'opera. La spiritualità, per Schelling, ha due facce: la "bellezza", che è poi la vita piena dell'essere anche nelle "dissonanze", capace di fondersi con la materia, anzi deve "celebrare le nozze tra lo spirito e la materia", e l'altra: la capacità di cogliere l'attimo, l'istante che prelude alla morte, all'eternità, al mistero, attraverso "l'elemento informe", che è precisamente la spiritualità naturale. Dal porto sicuro del suo studio romano Alberto Sughi si avvicina a questi concetti alternando lunghe pause davanti al cavalietto su cui sta l'opera in corso e i libri della sua biblioteca, che, come dice lui stesso, gli permettono di mettere in atto una ginnastica mentale che gli consente di ritrovare l'energia per connettere insieme le immagini che vuole lasciare alla vita. L'artista sente che la crisi del soggetto nel nostro tempo (l'era del nucleare, la società dello spettacolo) è soprattutto una crisi dell'opinione comune", un'incertezza costante, un profondo "spleen", che nasce dal fatto di riconoscersi "ancora" come soggetti, e di trovarsi "ancora vivi qui ed ora" su questa terra. La prospettiva delle catastrofi nucleari, ambientali, etniche, sanitarie, così come le abbiamo vissute in questi anni, mette decisamente in discussione l'immagine culturale, romantica, dell'indifferenza, o di una "superiorità" della natura. La natura oggi cessa di essere realtà separata, raccordata per via simbolica al nostro stato d'animo, e diventa allegoria oggettiva della perdita, si offre a noi con la lingua delle im pressioni, delle figure, dei sentimenti. Dice l'artista: "Nel ciclo (pittorico) Andare dove un uomo si smarrisce andando fra strani boschi... Ho la paura di perdermi. E allora se vedo crescere troppo le cose introno a me, mi perdo dentro le cose. In questo senso sono allarmato dal timore di smarrire il filo della mia vita, il motivo per cui ho scelto di essere un pittore, il suo significato". Sia che egli dipinga "paesaggi", o "interni con figure", figure ancora allacciate o già allontanate da un'erotismo spento, ne consegue che Sughi vede davanti ai suoi oggetti quasi sempre il problema della "separazione", separazione dallo stato di sicurezza, separazione dall'oggetto d'amore, separazione da se stessi, separazione dalla vita. La coscienza, o il presentimento dell'inevitabile essere separati, è all'origine dell'angoscia della solitudine che tormenta l'uomo, forse più intensamente quanto più egli deve allontanarsi dalla natura, visto che essa è, in effetti, il suo destino e la sua storia. L'individuo ha trovato l'esaltazione della propria unicità, e al tempo stesso ha dovuto fare i conti con la fenomenologia della separatezza, e quindi con il pericolo continuo dell'intrusione della morte nella vita, non sa più quale valore dare a quella sofferenza -che diventa sovente quel gran carnevale dell'angoscia in cui siamo tutti precipitati. In quest'epoca di "perdita", di smarrimento, di follia secolarizzata in cui il rapporto con "la luce superiore" si allenta, diceva lo storico Sedlmayr, l'arte perde trasparenza, si fa più opaca, ma l'arte in un'età senza luce, o meglio senza una mistica della luce, diventa ancora più "necessaria", perché essa si rivolge a noi come "visione pura", "assoluta apparizione". Per Sughi il mistero che sta dietro le immagini è in fondo, senza evocare un fantasma arcano, una presa di realtà, ovvero quel linguaggio che si apre verso qualcosa d'altro che è rimasto "fuori" dall'inquadratura. In questo gioco di proiezione e di nascondimento, regolato dalla dominante dell'ombra e della luce, dall'esperienza di "un'estasi quotidiana", che è poi l'esperienza della creazione, sembra sempre emergere qualcosa che si sottrae alla "macchina del vedere". Nell'ambito di questi problemi si pone per Sughi il problema della figurazione, che non è certo per lui un problema di scelta estetica, bensì una scelta che coinvolge la verità stessa del suo mondo poetico. Il fatto che egli sia rimasto fedele alla figurazione, sta ad indicare che egli solo in essa può riconoscere la condizione storica, temporale e spaziale dell'uomo. Non è un caso che Sughi metta però le sue immagini in gioco, le esponga agli assalti di quell'alterna che è nemica del nostro quieto vivere. L'artista evidentemente non ha mai creduto ad una immagine idillica, descrittiva e convenzionale dei suoi personaggi. Egli sa bene che l'uomo nel presente è al centro di un conflitto, ed è proprio questo nodo stretto che egli vuole esprimere, servendosi delle stesse contraddizioni che in questo conflitto intervengono apertamente. In tal modo l'immagine si concentra, o si allontana, si fa consistente, o fantomatica, buia, o centrata da una zoomata di luce, a seconda del sentimento che l'ispira. Mai per una decisione di mero carattere formale. Uno sguardo ravvicinato nell'excursus artistico di Sughi merita anche il "disegno". Egli in un'intervista ha detto: ".... i miei studi, sono sempre stati, rispetto a quelli dei miei amici pittori, poveri di senso pittorico, o pittoresco, di cose raccolte. Io scelgo di biffare tutto. Non vuoi dire che non lasci mai dei segni: può darsi che abbia paura di lasciarne troppi. Infatti nei disegni la figura appare sempre implicata in una situazione prospettica che la consuma e la disintegra, essa appare trattenuta sulla soglia del nulla da un'ultimo precario residuo di segno, e il segno non sta ad indicare la figura ma lo stesso infinito, in cui la presenza enigmatica della figura pone un limite inspiegabile, essa è l'espressione della condizione esistenziale dell'uomo moderno, alla soglia tra l'Essere e il Nulla. Quando Sughi traccia in punta di penna un viso sulla carta, manovra abilmente il segno nero dell'inchiostro, affinchè sia la distruttiva, e azzeratrice, luce del bianco a prevalere in modo che il volto non diventi un fantasma lontano, un reticolo di segni come trattenuti un attimo prima di scomparire, o forse mai realmente apparsi, forse subito ricacciati indietro verso un mondo di forme ambigue, accese da una profonda solitudine. Talora qualcosa cambia, e arriva l'ombra, l'oscurità che libera l'invenzione dall'obbligo della verità, e con l'ombra arriva il ricordo, che è sempre lontano, chiuso in un mondo di angoscia. Ciò che ci colpisce, nell'accumulo emozionale del segno, è un occhio segnato di un nero profondo come un abisso, una bocca serrata o convulsamente chiusa. Da tale progressiva smaterializzazione, via via depurata da riferimenti troppo precisi al reale, restano filamenti, indizi leggeri e ariosi di tracciati umani, che disfano ogni probabile sembianza. Disegnare volti, fare ritratti di chissà chi, forse di personaggi interiori, o anche di personaggi anteriori, equivale ad una scavo archeologico, un tributo alla NIGREDO, che è il cuore dei colori, e il cuore della metamorfosi e del destino. Una volta c'era un volto perfetto e il tempo l'ha consumato, forse l'ha massacrato, ma un relitto testimoniale continua ad esistere. Quel relitto non può essere che l'altro di noi, che amiamo, ma talora ci angoscia. Sughi obbliga il suo segno a rispettare due tempi: un primo "ductus" automatico, libero, e un secondo tempo in cui la traccia veloce della penna ha il compito di mettere ombra su ciò che è nato prima. Un lavorio veloce e implacabile che trova pace solo quando la linea tracciata e l'ombra accattivante, vengono annullate dal desiderio di comunicare ossessivamente l'assurda solitudine dell'esistere. Ogni disegno serve a Sughi per organizzare il senso della realtà, impadronendosene sul piano conoscitivo ed espressivo. Queste figure stanno ferme davanti a una finestra, od a una porta, dentro il mistero delle contraddizioni non conciliate, in cui abita la bellezza del mondo, quasi per segnare bordi d'ombra sulle traiettorie taglienti dell'ordine e del potere. Queste opere affrontano questi coni d'ombra, e si pongono di faccia a questi problemi. L'uomo, nel suo tortuoso viaggio attraverso il mondo, - e tutto il lavoro di Sughi nasce da un'interrotto viaggio nelle terre dell'origine - , ha sempre trovato, ad un certo punto del suo percorso, la soglia dell'ombra, ovvero si è trovato davanti a ciò che chiamiamo mistero. Il racconto di Sughi si spinge dunque verso il racconto dell'insormontabilità del tempo, che quindi non viene rappresentato, ma almeno "reso presente", proponendo così tratti di un'espressione temporale diversa e in cui le cose si intrecciano, spariscono, ritornano, non più legate ad un tempo storico, ma a un tempo cosmico. Marisa Vescovo, Narrazione sulla soglia dell'ombra, e' pubblicato in: © 1997-2005 questa pagina e' esclusiva proprieta' di albertosughi.com |