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Sergio Zavoli intervista Alberto Sughi

"Il reale e' quello
che vede la maggioranza "
Louis Borges

Viene un giorno in cui accadimenti, riflessioni, domande e risposte, trovano un assetto qua­si strutturato, come se da mille frammenti si possa risalire all'immagine compiuta, in grado di delineare il significato di un'esperienza. A questo pensavo dopo aver letto il tuo ultimo libro "Socialista di Dio". Hai guardato con tesa attenzione a ciò che succedeva dentro di te e attorno a te; hai saputo individuare i nessi che intercorrono tra privato e pubblico; tra tempo della memoria e tempo dell'esistenza. Hai saputo portare una testimonianza civile e morale che si deposita nella nostra coscienza. Oggi capisco meglio l'intelligente ansietà delle domande che mi hai sempre rivolte; la necessità che hai sempre avuto di interrogarti e di interrogare. Le nostre strade, pur attraverso percorsi accidentati in maniera diversa, ci portavano a misurarci con alcune centralità della vita che sono il grande problema irrisolto della nostra generazione. Mi sembra utile che alcune delle tante domande che in tempi diversi mi hai fatto, possano apparire nelle pagine di questo libro che presenta il mio ultimo lavoro.


Alberto Sughi e Sergio Zavoli, Monte Porzio Catone, Rome, 1981

Sergio Zavoli Tra i pittori "realisti" della tua generazione sei rimasto ostinatamente fedele a una pittura che a molti, commisurando vocazione e impegno politico, è parsa essere una scelta ideologica. Molte origini, in questo senso, sono state via via eluse o francamente ripudiate.Perché non ti ha mai neppure sfiorato quell'"orrore dell'apparente" che folgorò Picasso? Condividi quel suo paradossale giudizio, secondo cui "non c'è niente di più posticcio del reale"?

Alberto Sughi Non credo che esista una stretta correlazione tra una pittura che tende a rispettare i contor­ ni della realtà e una scelta ideologica. Nella mia formazione culturale saranno pure presenti elementi, schegge di ideologia, tuttavia preferirei che il mio lavoro di pittore testimoniasse del mio atteggiamento laico. Proprio per questo, a parte il disagio che spesso provo davanti a di­ chiarazioni così categoriche come quella di Picasso, direi che niente mi fa orrore e che conti­ nuo con molta curiosità a "spiare" il reale.

 SZ Ricordo bene, nell'immediato dopoguerra, le tue filippiche contro lo "zdanovismo", poi au­tenticate, "sul quadro", da una coerenza esemplare. Rammenti Luckas?: "La centralità del visi­ bile sta solo nell'identificazione della forma".Fu una delle teorizzazioni su cui si fondò, in quegli anni, il realismo socialista. Come ti di­ fendesti ideologicamente, da quella forte ipoteca?

AS Ci furono a cavallo degli anni cinquanta delle polemiche all'interno della tendenza neo­ realistica alimentato da chi voleva spingere verso i canoni del "realismo socialista" secondo il pensiero di Zdanov. Se è pur vero che queste polemiche determinarono contrasti e anche qual­che clamorosa rottura, non si approdò mai, in Italia, alla scelta di un "realismo socialista". Di­rei di più: quelle polemiche segnarono la crisi della stessa tendenza neo-realistica, provocando in molti una allarmata reazione ad una troppo stretta interdipendenza arte-politica. L'arte e la politica pretendono tempi di riflessione molto sfalsati e mandano messaggi diversi.

SZ Tutto il mondo del visuale ha una prima, elementare lettura che si basa su un criterio di normalità. Non c'è nulla più del visuale che richiami, se vuoi banalmente, il concetto di vero e di verità. Quando tu cominciavi a dipingere, Aragon scriveva che "solo il normale è poetico": un modo apodittico di escludere per amore di tesi, tutto il visionario, tutto il fantastico, per un polemico e totale omaggio al reale. Quale il tuo concetto di normale, riferito alla leggibilità dei tuoi quadri?

AS Spesso ho pensato che la pittura, per essere vera, per essere "grande pittura", debba assu­ mere il tono dell'estrema naturalezza (es.: la pittura di Velasques). La naturalezza, a sua volta, sembra suggerire uno stretto rapporto con la normalità. In questo caso non può dispiacermi la frase di Aragon "solo il normale è poetico". Mi rimane tuttavia il dubbio che, non ponendo io nessuna ipoteca ideologica che determini i confini della normalità, intenda quel concetto in un'accezione diversa dalla sua.

SZ Tu sei un pittore che organizza "scenicamente" il rapporto col quadro attraverso un atteg­ giamento che ricorda, per qualche verso, la fotografia autoscattata. Barthes, in una sua storia dello sguardo, avrebbe potuto citarti come chi, dipingendo, è nello stesso tempo dipinto. Non è la vicenda, in qualche modo narcisistica, del proprio ritratto: è semmai quella, schizoide, del vedersi in un altro. Una contestabile mitologia, ma ti riguarda. Ha qualche senso?

AS Dipingere è anche un modo per conoscere. Possiamo adoperare come oggetto di riflessione la nostra stessa immagine, e non natural­ mente solo quella fisica, per accertare ciò che è mutato e quali segni si sono depositati fin dentro di noi. L'immagine che la tela restituisce all'artista è il risultato di un'indagine introspettiva che può mettere in gioco rassicuranti convenzioni.

 SZ Ne "La famiglia" salta agli occhi un dato: mentre "La cena" era una rappresentazione del mondo borghese, di cui ti premeva cogliere un'emblematica deformazione, qui assistiamo al­ l'improvviso riapparire dell'immagine, e quindi della cultura, proletaria: un'immagine e una cultura non più proponibili nei loro originari termini storici e, figuriamoci, iconografici...

AS La vera novità rispetto al mio lavoro precedente consiste nell'avere chiesto l'ausilio della memoria, a cui non mi ero mai rivolto con tanta ansietà, per rivisitare ciò che avevamo lascia­ to nella vecchia casa; per capire ciò che era giusto lasciarvi e cosa invece dovevamo portare con noi. In questa rivisitazione mi è parso di dovere soprattutto cogliere il senso di una dignità che né i disagi, né la sofferenza, né il dolore, riuscivano a cancellare. Se questa dignità è il segno esistenziale di una cultura proletaria viene facile il confronto con la nevrosi che segna l'uomo della cultura consumistica.

SZ Questo ritorno a volti, luoghi e gesti su cui si intratteneva, con una solidarietà tra ideologi­ca e affettuosa, la tua prima pittura provoca il dubbio di una nostalgia radicale, tanto è dichiarata, a qualcosa che andava richiamato per sistemare un bilancio altrimenti in perdita. Questo recupero di una memoria "popolare" è riferibile a qualcosa che è anche accaduto nella tua e nella generale cultura del politico e del sociale?

AS Non si tratta di nostalgia; non c'è desiderio di tornare sui propri passi per ritrovare luoghi e tempi rassicuranti. La memoria, quando si sposa con la nostalgia, non è una memoria laica: genera solo illusioni. Io vorrei adoperare la memoria per restituire qualcosa al tempo presente; perche l'uomo di oggi sappia cosa ha perduto senza nemmeno accorgesene; quale prezzo ha dovuto pagare per uscire dalla povertà. Non so come, ma l'uomo ha bisogno di ritrovare, senza perdere ciò che ha conquistato, l'integrità, la dignità, la sua misura umana.

SZ Il tuo ritorno, con "La famiglia", ad un mondo immerso in questa casta miseria non è una "polemica" che va spiegata anche politicamente?

AS Mi pare del tutto lecito che da un'operazione figurativa affidata alla memoria possa nascere una polemica che trovi il suo terreno nel dibattito politico. Anche se l'artista non voglia o non possa andare oltre le proprie immagini.

SZ C'è, ne "La famiglia", una certa idea del fare con amore, della dedizione, del sacrificio, che richiama un sentire vagamente cattolico...

AS Se è vero che i valori dell'ideologia cattolica trovarono il loro habitat più naturale nel corpo della civiltà contadina era impensabile che non se ne avvertisse lo spessore ne "La famiglia".

SZ Tu sei un pittore che ha molto lusingato e molto inquietato la borghesia. Puoi razionalizza- re questo rapporto?

AS Può darsi che, come in fondo sospetti, si possa cogliere nel mio lavoro una divaricazione contenutistica. Dentro il mondo borghese, l'etica che esso esprime, mi sento come se fossi uno di casa che guarda la porta col desiderio di uscirne. Questo non mi fa perdere la coscienza che quel mondo ha pur nutrito la mia intelligenza, la mia psicologia, addirittura i miei dissensi. Da questa problematica non risolta possono nascere immagini amare e sofferte che rifletto­ no pietà e distacco, coinvolgimento e separazione.

SZ Questa "famiglia" è dunque calata in una scelta espressiva e contenutistica di segno "povero", quasi arcaico. Perche, tu che l'hai così spesso indagata e addirittura privilegiata, non hai scelto una famiglia borghese, dentro la quale, dopotutto, vivi la tua vita e paghi le tue vitali contraddizioni?

AS Mi è difficile immaginare che "La famiglia" possa assumere il significato di una scelta te­ matica che, per qualche verso, segni una rottura o, ancora di più, una contrapposizione rispet­ to al mio lavoro precedente. Io ho sempre cercato di condurre un'indagine accanita sulla condizione dell'uomo; sul suo malessere esistenziale che prende evidenza all'interno di situazioni apparentemente rassicu­ranti. Facciamo un esempio: quando nel 1967 dipinsi il ritratto di un uomo trincerato dietro file di televisori, frigoriferi, termosifoni, telefoni, volevo rappresentare il pericolo che l'uomo avrebbe corso se non avesse capito in tempo che non doveva mitizzare un benessere che lo stringeva in un pericoloso assedio. Il benessere si deve adoperare per vivere meglio, non vendere la propria vita per averlo. E così, quando nel 1976 dipinsi il ciclo della "Cena", feci il ritratto di quell'uomo reso atto­nito dal non aver capito in tempo; che addirittura stava perdendo la memoria della sua antica dignità. Questa perdita della "sua memoria" diventava il segno più allarmante. Nei quadri di oggi ho cercato di dare sostanza d'immagine alla memoria perduta. Non ho fatto il ritratto di una famiglia contadina, ho cercato di recuperare la nostra comune memoria.

SZ Ognuno di noi è in qualche modo segnato dalla propria famiglia. Tu stesso ne porti i segni, datati: i figli cambiati da ciò che accadeva lontano da te, fatti adulti fuori e persino "contro" di te.... Questa famiglia, così tua e così nostra, apparentemente nel quadro non c'è... oppure, a guardar bene, c'è?

AS Non ti sarà sfuggito, Sergio, che ho parlato all'inizio in terza persona, ma ho finito col dire che volevo recuperare la "nostra memoria". Ecco, vorrei che si intendesse che questi quadri appartengono alla nostra famiglia, ai nostri figli perche siano meno lontani da noi, a noi per­che possiamo essere meno lontani da loro.

SZ Tu sei stato e sei comunista. Un tuo grande amico era Amendola. Qualche po' di eresia ha sempre distinto la milizia politica degli intellettuali. Tu, per giunta, sei un artista, il quale è eretico a priori proprio perche accetta, dal principio, che tutto possa essere diverso. Come si concilia la milizia con una "diversità" che non corrisponde quasi mai all'idea che te n'eri fatto? Hai mai dipinto contro la milizia, contro il partito, addirittura contro te stesso?

AS Rispetto all'ortodossia non mi sento eretico, direi piuttosto eterodosso; per questo mi sento libero di dissentire, di trasgredire, di prendere le distanze. Non mi è mai capitato di arrivare alla rottura col mio partito. Dicevo all'inizio che il lavoro dell'artista ha un tempo sfalsato ri­ spetto a quello del politico; bisogna che l'uno e l'altro abbiano la "pazienza" di rispettare questi tempi. È questa una pazienza ineludibile, perche è una "pazienza storica". Se alle volte mi sono sentito abbastanza lontano dal partito, o il partito lontano da me, non credo sia stato un gran danno per nessuno dei due. La mia milizia nel partito risponde a una scelta giovanile che ritengo ancora un patrimonio della mia vita da conservare. Mi chiedi se ho mai dipinto contro il partito, contro la milizia, contro me stesso: contro me stesso mai; e siccome credo di essere io stesso, come militante, una parte del partito, dovrebbe conseguirne perlomeno che non ho mai dipinto contro tutta la milizia e contro tutto il partito.

SZ Eppure sei fedele, nella tua indocilità, più di quanto, in genere, il consenso corrisponda alla critica. Quanta ambiguità in questo senso scarichi nei tuoi quadri? E in quale misura essi ti aiutano a mediare?

AS Non sono solo un artista laico e libero da ogni ipoteca. Sono anche un uomo che divide con gli altri ansietà, paure, speranze. Un uomo che ricorda di avere, rispetto a tanti altri, un lavoro che ama e che poi è qualcosa di più di un lavoro. Certo, i miei quadri mi servono per scaricare alcune tensioni.

SZ Da questo punto di vista hanno avuto qualche significato le tue sia pur rare sortite nell'immaginario?

AS Alle volte mi viene il pensiero che ognuno di noi potrebbe essere anche qualcosa di diverso da quello che è. Qualcosa che alle volte viene fuori per accenni. Sono solo momenti, spesso sembrano trasgressioni. Quelle che chiami le mie sortite nell'immaginario rispondono alla cu­ riosità di vedere cosa potrei essere di diverso. Ecco, in questi casi l'accenno a Barthes di poco fa mi sembra giusto...

SZ E poi, perche sei sempre tornato all'identificazione delle forme, cioè alla cosidetta centralità del visibile?

AS Perche quella curiosità si appaga in fretta e anche perche, forse, sono solo quello che so di essere.

SZ Dove va, oggi, un artista che voglia identificare se stesso nella centralità del sociale?

AS Corre il rischio di essere coinvolto, come è giusto, nelle contraddizioni della società, di tro­ varsi in un labirinto dov'è difficile trovare l'uscita.

SZ E se accettasse d'essere a sua volta così diverso da non porsi più il problema dell'eresia?

AS Il problema della diversità, della libertà di essere diversi, non riguarda solo gli artisti: è un diritto di tutti gli uomini. Nessuno dovrebbe essere indicato come eretico; rispetto a cosa, poi?

SZ E se l'eresia fosse così generalizzata da non potersi più porre il problema della diversità? Non sarebbe la soluzione, rovesciata, di quanto ci siamo detti?

AS Certo, ma non dipende solo da noi. Noi, per il "rovesciamento", possiamo solo testimoniare.

 

Sergio Zavoli interviews Alberto Sughi is published in the retrospective exhibition catalogue of Alberto Sughi’s work, The Family, presented by Dario Micacchi at the Gallery of La Gradiva of Rome, 2001.

 

 

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