albertosughi.com



     

Il Segno e l'Immagine,

Intervista di Sergio Zavoli ad Alberto Sughi



Sergio Zavoli Non credo, Alberto, che tu abbia mai avuto la sindrome di Leonardo, dubito persino che tu sia mai ricorso a una modella, a un manichino, a qualche testo di anatomia, con lo spettacolare diramarsi delle innervature, per esempio, di una mano, come dentro una foglia; credo, al contrario, che il tuo segno sia nato al di fuori d'ogni regola accademica.
Insomma, così straordinario, non sei un prodotto di scuola, cioè di una disciplina, di un criterio, di un metodo. Proprio dalla raccolta dei tuoi disegni, anche i più estemporanei - persino quelli in cui ti eserciti come per gioco, o passatempo, magari mentre telefoni - traspare il primo dei tuoi talenti, il segno, cui affidi, come alla scrittura per lo scrittore, la forma stessa della tua arte. Ma è sempre indispensabile avere un segno che – guidando tutto quanto si svolgerà sulla tela – è già la struttura, se non anche l'essenza, del quadro? Si può essere creatori d'immagini al di fuori di questo a priori?
Certo, dalla scomposizione del segno, e dalla perdita della sua leggibilità canonica, può nascere la grande e celebrata pittura, poniamo, di Picasso; dietro questo artista – ma è una storia che ne attraversa tante altre – forma e sostanza si danno codici non più di scuola, cioè teorici, come nei precedenti "periodi blu e rosa" dove il segno era predisposto a una rappresentazione figurativa convenuta, ancora tradizionale. Per tagliar corto: quando e come è nato il tuo segno? E' stato il segno a guidarti la mano, e tu l'hai seguito docilmente? Oppure l'hai coltivato, assegnandogli la prova del tuo talento, fino a trarne l'ordito della tua stessa pittura?

Alberto Sughi Il tuo ragionamento è intrigante: partendo da un problema che certamente mi riguarda, poni a me e in fondo a te stesso domande che si riferiscono a un tema più generale: se cioè l'artista è figlio naturale del suo talento, in grado di produrre opere complesse e rilevanti rimanendo tuttavia inconsapevole delle ragioni e dei procedimenti che le hanno determinate. Il segno che lo sorregge è solo il momento dell'ispirazione, o dell'intuizione, non analizzate razionalmente, senza il quale il quadro, da risolvere pittoricamente, non nascerebbe? O l'artista è chi coltiva, affina il suo segno considerandolo certamente uno strumento indispensabile per il proprio lavoro, ma senza affidargli un compito fondativo, addirittura fondamentale, e quindi separato dalla totalità dell'opera? Io credo che un artista non rinunci a nessuna libertà anche dove sembri che sia il segno a guidargli la mano, ma in realtà lo analizza e modifica per seguire un processo di conoscenza contestualmente alla stesura complessiva del quadro.

Zangheri, Zavoli, Sughi, 1986
Renato Zangher, Sergio Zavoli, Alberto Sughi, all'innaugurazione dell'antologica
di Castel Sant'Angelo, Roma, 2006

 
SZ Hai mai pensato a un segno diverso, hai mai sperimentato un'altra "scrittura"?

AS Penso che il solo fatto di poter immaginare più modi di essere artista stia a significare, accanto alla complessità di ogni questione che riguardi l'arte, un sistema di relazioni con la "tua" arte che è difficile classificare. Io, lo sai, continuo a cancellare, a rifare, a mettere continuamente in forse il segno dei miei quadri, e potrebbe darsi il caso che per ritrovare la mia "naturalezza" debba ormai fare un percorso sempre più accidentato. Ma quand'anche il risultato obbedisse a un segno "nuovo", sarebbe pur sempre il mio.


SZ Che debito hai pagato, per dir così, all'essere un grande disegnatore? Intanto, si vide subito che esso dava alla pittura un'immediata riconoscibilità...

AS Il segno, in questo senso, è tutt'uno con lo stile, il solo elemento formale che fornisca il codice per leggere l'opera e riconoscerne l'autore. Ma un artista, pur raccontando sempre se stesso, non si consegna a un marchio, a un sigillo: gli artisti più grandi si sono rappresentati anche attraverso segni diversi.

SZ Perché, al contrario di quanto è accaduto a te, alcuni tuoi compagni di cordata - penso soprattutto a Vespignani - si sono visti premiati per un segno che esauriva da sé, in sostanza graficamente, il quadro stesso?

AS Sapere disegnare significa rendere espressivo il nostro rapporto col mondo attraverso una struttura linguistica che mostra, rappresenta, ma non può argomentare. Di conseguenza, ogni artista che rappresenti in modo espressivo è, per ciò stesso, un disegnatore. Considero il disegno uno strumento prezioso e necessario, che ho cercato nel tempo di affinare; non certamente un debito da saldare, tantomeno rispetto a una supposta interferenza, per positiva o negativa che la si voglia considerare, con la pittura.

SZ Qualunque pittura, dunque, non è separabile dal segno in cui essa abita, e al tempo stesso ne viene espressa. Anche quando, come rinnegato dalla sua distruzione, cioè dalla cosiddetta informalità, il segno si libera della pittura?

AS Segno e pittura, come li intendo io, quando raggiungono un'espressività compiuta li osserviamo con la stessa sintassi critica. Se poi faccio riferimento al mio lavoro, la contaminazione tra i due generi è così evidente che continuo a intervenire con segni, correzioni, sottolineando con la fusaggine anche sulle campiture a olio.

SZ Perché il segno, da sé, principalmente da sé, si è prestato così tanto all'uso che ne ha fatto l'ideologia? Forse perché corrispondeva a una eloquenza più semplice, ha una maggiore icasticità?

AS Di per sé il segno non rappresenta meglio la realtà, alle volte può offrirne una lettura lirica e fantastica. Un disegno di Matisse, per esempio, non si presterà mai ad alcuna lettura ideologica. E' vero, invece, che taluni artisti lo hanno piegato a una didattica ideologica proprio perché il segno, con la sua scrittura più sintetica e leggibile, si presta molto a un uso efficacemente propagandistico.

SZ L'insistenza di un tema, e quindi di un segno, presente in tanta parte delle tue opere - cioè la rappresentazione del rapporto tra uomo e donna – fa parte dell' "ossessione del tema" di cui parlava Moravia agli inizi del suo lavoro, quando gli artisti s'interrogavano sul loro stare dentro la vita e la società, l'ideologia e la politica, o è qualcosa d'altro?

AS Può darsi, ma non ne sono così sicuro; forse è solo una metafora, certamente ossessiva, che parla del nostro rapporto con gli altri: curiosità, silenzio, attesa che all'improvviso si capisca ciò che è rimasto sempre nell'ombra, e tante cose ancora. Un'interrogazione, che non cerca risposte, sulla nostra esistenza.

SZ Il segno, quando è puro e solo disegno, è come un continuo orlo di se stesso, non ha altri mezzi che se stesso per aggiungere e togliere alla sua scrittura. Il resto è da farsi pittoricamente. Ha dunque una natura soprattutto esplicativa, didascalica?

AS C'è un disegno di Rembrandt, con delle linee verticali che scendono su una Crocifissione nella parte bassa del foglio, in un'atmosfera, una luce sinistra, un sentimento di tragedia che tanta pittura non saprebbe rappresentare. Esiste il disegno come didascalia del quadro che s'intende dipingere e invece un'altro che è già opera compiuta.

SZ Sebbene i tuoi quadri si affidino principalmente a una forte riconoscibilità figurativa, nondimeno c'è chi si esercita a cercarvi assonanze, incroci, atmosfere che richiamano altre forme espressive, dovute a strumenti diversi, come il cinema. Quello per esempio di Antonioni - fondato sulla borghese, inquieta e reciproca inaccessibilità, tra loro, delle persone – o di Scola, quasi un socio-analista che trasforma lo sguardo in introspezione, tra psicologia e realtà, poesia e documento, oppure di Fellini, che fu il primo a chiamare la tua "un'arte d'immagine anche nel senso dell'inquadratura e del racconto", dove fissità e dinamismo, esplicitezza e allusione, ambiguità e scandalo sono un continuum che non elude mai il confronto tra realtà e sogno, pur privilegiando l'idea secondo cui "l'immaginazione è il modo più alto di pensare", come il grande regista amò dire quando gli si rimproverò di rifugiarsi nelle "astruserie" simboliche, più o meno psicanalitiche. Ricordo bene come, a Monteporzio, Federico ti "studiò" a lungo sui quadri di casa mia, e assimilasse le tue opere "a qualcosa di filmico, con il loro nascere, come il cinema, dalla luce". Ed ecco il punto: se tutto ciò ha un senso, e perdura, puoi ancora dire che il tuo lavoro non sta più nella vita, che ne è stato espulso dalla sua inutilità, reso superfluo o banalizzato dall'abuso immane di immagini depositate ogni giorno nei nostri occhi, come se in quella mostruosa incontinenza si fossero confuse, e andassero annullandosi, quelle prodotte da voi artisti?

AS Nonostante tutto io dipingo inseguendo strutture formali. L'incontro con gli occhi di chi si sofferma a guardare i miei dipinti, la conseguente necessità di tradurli in pensieri, concetti, argomenti determina spesso una lettura del mio lavoro a cui magari non avevo pensato. Se devo dirlo, ciò non mi basta più per credere che la pittura, oggi, continui a coincidere con la vita.

SZ Luigi Cavallo giudica la tua pittura facendo in un altro modo lo stesso percorso di Fellini: parla della " teatralità dell'agire quotidiano"(è per caso che uno dei tuoi quadri più importanti si chiami "Teatro d'Italia"?) come il nucleo di una continua duplicità dell'essere. Di qui – credo si debba continuare a leggere – la tua lucida e dolente predilezione per le atmosfere che si creano tra gli estranei, i silenziosi, gli attoniti, cioè i complici di una laconicità esistenziale, mai giudicati, ma visti, impietosamente, nella loro lontananza gelida e persino indolore. Che cosa, di questo tuo scenario che la critica non solo italiana assimila alle forme maggiormente espressive di Bacon, non ti sembra più riconducibile a un'idea di utilità della pittura? A quale bilancio si riferisce?

AS Penso a un negozio con mercanzie preziose (il significato dell'arte) dove non entra più nessuno a comprare. Mi sembra di sentire il rumore delle serrande, il negozio sta per chiudere. E provo una grande malinconia.

SZ E' incredibile, nel senso che si stenta a coglierne la ragione più profonda, immaginare un pittore dei più reputati tra i figurativi del nostro tempo che senta venir meno il consenso interiore alla sua, diciamo, militanza artistica. Sembra innaturale una soglia oltre la quale un artista, riconosciuto quanto te, possa scoprire una sorta di ormai ontologica inappartenenza della pittura (nel senso della sua crescente inefficacia) al processo di decifrazione e rappresentazione di una realtà che dovrebbe aver bisogno, più che mai, dell'interpretazione dell'arte. Ti pongo un grappolo di domande, ma forse è una sola: dove trovi le ragioni concrete del tuo disincanto? Quale costo ha questa deriva, posso chiamarla così? Che cosa potrebbe redimere il compito del pittore in una così veloce corsa del tempo verso la morte di tante cose, a cominciare dall'immaginazione e dalla bellezza, dalla filosofia e dalla moralità, dall'umanesimo e dall'etica? L'arte non serve più a dirci chi siamo? E' tutto davvero affidato alle cosiddette scienze esatte, lontane e tristi ben più di quella "scienza" che traspare da ogni giudizio che l'arte, la tua stessa, decreta ogni giorno?

AS Un certo disincanto, doloroso finché si vuole, ma sostanzialmente lucido, riporta a una questione che ci interessa e ci inquieta da quando veniamo interrogandoci sul significato di deriva, se non ancora di perdita, racchiuso proprio nello sfinimento crescente dell'umanesimo. Sembrerà un paradosso, ma proprio quando la scienza prende su di sé le sorti del mondo, proprio quando ciò che essa esprime sembra essere, e temo sia, l'ultimo spazio dell'umanesimo, scopriamo che non c'è scelta scientifica la quale al tempo stesso non sia anche umanistica, in quanto vicaria di ciò che l'umanesimo non è più in grado di generare, e che comunque sopravanza irresistibilmente la tradizione culturale in cui siamo cresciuti, anche con le nostre idee sull'arte....

SZ Quella era un'arte che partecipava, insieme, alla lettura della storia e del destino umano, mentre oggi non si avverte il bisogno di interpellarla perché le sue risposte non possono più stare al passo con una lettura del mondo sempre più frantumata, come andiamo dicendoci da tempo, dalla velocità dei nuovi strumenti interpretativi forniti dalla scienza alla tecnologia, e da questa alla politica e a tutte le scienze sociali, cominciando dalla comunicazione.

AS E' vero, il cosiddetto flusso comunicativo, specie quello affidato alle immagini, ha preso per sé molte funzioni; non solo quella di informare, ma anche quelle di rappresentare, selezione e persino giudicare. Di conseguenza, un'arte come la pittura - in una realtà, si direbbe, di continuo consumata dagli occhi – viene di fatto relegata nelle botteghe, negli studi, nelle gallerie, nelle mostre, cioè i suoi arnesi comunicativi sempre più disertati e silenziosi, con quell'aria un po' pesta che esce dalle vecchie cassapanche rimaste a lungo chiuse. Ciò che resta è l'evento, cioè l'uso spettacolare della pittura, la sua consumazione più sofisticata, intellettuale, persino mondana. Tu stesso, riferendoti più in generale alla "coriandolizzazione della realtà" provocata dall'uso che si fa della comunicazione in ogni sua forma e linguaggio, finisci col comprendervi tutto ciò che non ha più la natura per consistere e durare per quel che serve alla nostra vita, come d'altronde la letteratura e la filosofia, per fare solo gli esempi più eclatanti.

SZ Carlo Bo scriveva "Letteratura come vita" proprio riferendosi a un grande travaglio creativo della cultura umanistica nell'incontro tra i due ultimi secoli. Oggi non potrebbe dirsi nulla di simile dell'incontro del '900 con il primo secolo del terzo millennio. Vorrei chiederti un giudizio su questi aspetti del problema affrontati, seppure in altri contesti, da un filosofo e da un moralista. Con una punta non saprei dirti se più di allarme o di rassegnazione, Heidegger scriveva: «Nel mondo d'oggi tutto, ormai, funziona. Ma proprio questo rischia d'essere l'elemento inquietante: che tutto funzioni, che il funzionare spinga sempre avanti verso un ulteriore funzionare, e che ciò strappi e sradichi sempre più l'uomo da se stesso. Lo sradicamento è già in atto. A forza di funzionare abbiamo ormai rapporti - tra noi, tra noi e la realtà, tra noi e la nostra stessa immaginazione - puramente tecnici». L'osservazione riporta a un'altra - analoga, sebbene scaturita da un ragionamento affatto diverso, di padre Balducci, anch’egli giudice lucido della modernità conclamata. Riferendosi all'irresistibile primato dell'intelligenza, finiva per temere un pensiero che produce solo pensiero, e questo pensiero un altro ancora, tanto che in fondo alla spirale di un pensiero che pensa solo se stesso non c’è più nessun'altra realtà da pensare, avendola già tutta, per così dire, pensata. "Con la tragica eventualità che alla fine ci rimangano una sola realtà e un pensiero soltanto". Sta di fatto che scienza e tecnica hanno costruito una sorta di cervello planetario in cui tutti i cervelli artificiali sono tra loro connessi. Così, con tutte le sue appendici elettroniche, i suoi algoritmi, i suoi impulsi digitali, l'uomo rischia di diventare un animale tecnocefalo, un mutante alla ricerca di quell'altra natura che la virtualità è già in grado di rappresentare: una neo - realtà tra vera e fittizia che domina sempre più la nostra fantasia, produce i nostri desideri, condiziona i nostri progetti. Dove si colloca la tua sfiducia sul ruolo dell'arte in una realtà del genere? Che cosa servirebbe per farne uno "scandalo"? E' forse già implicito, in questa tua straordinaria maturità, che, essa stessa, mentre viene sempre meglio classificata, si offra come prova di una crescente, generale infondatezza dell'arte?

AS Tra tutti gli arbítri che l'arte si può prendere non c'è quello di essere autoreferenziale. Troppa pittura, nel nostro tempo, prende il centro della scena perché afferma chiassosamente la sua esistenza. E' solo stoltezza, manifestazione del vuoto culturale in cui siamo precipitati. L'arte è un'altra cosa: è la ricerca ansiosa della strada che dovrebbe portarci dove si intravede la verità. La verità resterà, forse, sempre nascosta, ma il lavoro dell'arte testimonia sul viaggio intrapreso per conoscerla.


 

Il Segno e l'Immagine, Intervista di Sergio Zavoli ad Alberto Sughi e' pubblicata nel volume per la rassegna antologica di Alberto Sughi, Il Segno e l'Immagine a cura di

Giovanni Faccenda, Arezzo Galleria Comunale d’Arte Moderna e Contemporanea 14 Aprile - 21 Maggio 2006

 

© 1997-2006 questa pagina e' esclusiva proprieta' di albertosughi.com

La copia e distribuzione, anche parziale, richiede autorizzazione scritta di albertosughi.com

Please ask albertosughi.com's permission before reproducing this page.
 

albertosughi.com

 

AlbertoSughi/Interviste/onLine